Lorenzo Buffon e Giorgio Ghezzi

Buffon, Lodetti e altre fedeltà ferite. 
Quando andar via dal Milan fa più male del solito


... Non si vuole raccontare la storia di Lorenzo Buffon e Giorgio Ghezzi che incrociarono le traiettorie anche nella vita sentimentale o, più precisamente, nelle cronache rosa e nei pruriginosi pettegolezzi dell’Italia della metà degli anni cinquanta. Nell’epoca di Lascia o Raddoppia (novembre 1955-luglio 1959), il programma a quiz che paralizzava il paese davanti agli schermi televisivi, la ragazza più famosa lungo tutto lo Stivale era una bellissima milanese discreta, elegante, piuttosto somigliante a Doris Day. Si chiamava Edy (Edda) Campagnoli, accompagnava i concorrenti e passava le buste delle domande a Mike Bongiorno. Faceva poco altro (era soprannominata "la Valletta muta") ma ciò bastava a renderla il sogno neanche tanto segreto degli italiani e soprattutto le regalava una immensa popolarità e notorietà. Ebbe una storia con Ghezzi prima di fidanzarsi e sposarsi Buffon, con tanto di torta nuziale recante in cima la riproduzione di un pallone e di un televisore al posto dei canonici pupazzetti vestiti bene) 
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Intendiamo, invece, raccontare la vicenda sportiva di Lorenzo Buffon, friulano di Majano ma cresciuto a Latisana e di Giorgio Ghezzi, romagnolo di Cesenatico. Due grandi portieri con qualità diverse, quasi a rappresentare i diversi caratteri delle terre da cui provengono. Buffon fisicamente più robusto, più solido nell'interpretazione del ruolo, piuttosto concreto. Ghezzi più longilineo, più agile, più spettacolare, vero e proprio “inventore” delle uscite spericolate a sdraiarsi sui piedi degli attaccanti. 
Vengono però, in fondo, dalla stessa Italia del dopoguerra e lo si capisce, per esempio, dalle scarpe. Lorenzo: «al primo provino con il Latisana mi presentai con delle scarpe da ginnastica mezze bucate. L’altro portiere era il figlio del negoziante di articoli sportivi e aveva quelle coi tacchetti. Presero lui ma poi al Milan ci andai io». 
Giorgio: «la mamma non voleva che giocassi a calcio perché distruggevo sempre le scarpe. Per questo divenni portiere: in quel ruolo si rovinano meno». 

Riassumendo: Buffon era “Tenaglia”, un soprannome da fabbro friulano, e Ghezzi “Kamikaze”, un soprannome da romagnolo con una vena di follia. Riassumendo (in chiave di soddisfazione milanista): Buffon quattro scudetti e due Coppe Latine; Ghezzi uno scudetto e una Coppa dei Campioni (però la prima della storia rossonera). 
Cosa abbiano vinto (prima o dopo) con la maglia sbagliata di Milano potete andare a calcolarvelo da soli: non è compreso tra i compiti di questo volume. 
Si, perché ad un certo momento della loro carriera si scambiano la postazione di lavoro. L’episodio (oggi si direbbe l’intrigo di calciomercato) è più complicato. C’è di mezzo per entrambi un passaggio al Genoa, quasi a disintossicarsi e a ricostituirsi in un salubre luogo di mare. Lo scambio avvenne nella sessione “novembrina” del mercato 1959-60. Fu quindi ufficialmente una operazione per cui Milan e Genoa si scambiarono i portieri. Solo che Ghezzi era passato ai Grifoni l’anno precedente in uscita dall’Inter. E Buffon ripercorrerà la A7 Milano-Genova in senso inverso nell’estate del 1960. 
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E qui ci stiamo accorgendo che forse abbiamo liquidato troppo presto la prospettiva affettiva, confinandola a una questione di fidanzate. Ma ci sono altri sentimenti (e non per via del fatto che qui stiamo parlando di portieri…). Quelli che descrivono un amore ancora più puro. L’amore per una squadra di calcio. Quello per la propria squadra di elezione. Anche se, alla fine, magari non rimane l’unica squadra. Anche se è possibile trovare la felicità e il successo altrove. Ma non ha lo stesso gusto. Quando si dice che a qualcuno si vorrà bene per sempre bisogna fare attenzione a non  confondersi: per sempre non è sempre, ovvero ogni secondo di ogni minuto di ogni ora di ogni giorno e via dicendo. Ma è per tutta la vita: a consuntivo.
Da Cesare Fiumi, Storie esemplari di piccoli eroi, rubiamo le parole di Lorenzo Buffon: «5 a 1 alla Sampdoria e tre domeniche dopo, a casa della Juve, vincemmo 7-1, io parai bene e Nordhal fece quattro gol in cinque minuti. Arrivò lo scudetto [quello del 1951, N.d.A.], ed erano quarantaquattro anni che il Milan lo aspettava, ci fu una festa grande. Ecco, quel giorno sono diventato milanista a vita. Non ho mai cambiato idea neanche cambiando maglia dieci anni dopo. Quando mi hanno ceduto all’Inter, dove ho vissuto i Derby capovolti e il primo scudetto dell’era Herrera. I tifosi nerazzurri sapevano come la pensavo, ma mi volevano bene. “Almeno abbiamo un grande portiere”, dicevano. Allora l’attaccamento, il senso di appartenenza, era un sentimento forte e tutti lo rispettavano. A quel tempo ero titolare della maglia azzurra eppure il Milan decise di darmi via: ero buono per la nazionale ma non per la squadra rossonera. Non ho mai capito quello scambio con Ghezzi…». 

Un vero amante tradito. Come direbbe Marco Ferradini (Teorema) uno che “parla da uomo ferito”. 
Anche Ghezzi, peraltro, dimostrò attaccamento ai colori sbagliati ma che erano in fondo quelli della sua anima. Il suo hotel di Cesenatico lo chiamò «Internazionale» e gestiva anche un night dal nome «Peccato veniale» che aveva il simbolo del serpente (tentatore ma anche bauscia). Colpa lieve appunto, che perdoniamo al portiere della prima Coppa dei Campioni ...




Nelle foto: Ghezzi e poi Buffon con Edy Campagnoli